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La “Medea” decadente di Magelli che guarda alla Mitteleuropa

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UNA TRAGEDIA RESA MODERNA NELLA TRADIZIONE

di Gianni Bonina

 

Una Medea così mitteleuropea non poteva che essere opera di Paolo Magelli che all’idea di una cultura decadente, crepuscolare, eppure pervasa da una forza che si costituisce come statuto, ha ispirato gran parte della sua attività di regista presente sui teatri che vanno dai Balcani al Baltico. Una Medea che anziché a Seneca si avvicina a Christa Wolf, privata com’è della sua veste di cinerea negromante e folle assassina e consegnata a un’immagine di donna tormentata, complessa, oggetto di una persecuzione accanita e vittima di un’immotivata condanna alla perdizione.

Magelli, in coerenza con i sentimenti che la cultura postasburgica ha nutrito nei confronti di una femme sans merci accolta come femme sage et savante, ha scelto un’epoca nella quale collocare la sua Medea prima di dotarla di una personalità che ne rappresentasse il modello di pensiero: e l’epoca è quella proprio della crisi continentale, successiva al disfacimento di un impero nel quale si riconoscevano non solo un ideale di Europa ma anche una dottrina filosofica e una temperie letteraria nei modi del più disforico esistenzialismo e del più svenevole decadentismo.

Quell’aria candida ed estenuata di telefoni bianchi, redingotes, cappelli a cloche, guanti lunghi, lustrini e paillettes, così cara a un gusto déco sinonimo di festa e contrizione, splendore e miseria insieme, la ritroviamo trasposta in una tragedia sostenuta da un clima di amor fati e di fine incombente che nell’adattamento modernista di Magelli non manca tuttavia di recuperare elementi del più genuino dettato classico. La luce e il lutto trasfigurati nel bianco e nel nero dei costumi di Ezio Toffolutti tingono la sabbia rilucente che ricopre gli abiti così come impasta i volti, dando la sensazione di un tout-de-même che si definisce in funzione di una unificazione di luogo, tempo e personaggi, che vediamo non a caso più volte a terra come per assimilarsi ad essa e confondersi nello stesso colore così retrò, che tanto ricorda le atmosfere di Thomas Mann come pure di un D’Annunzio.

Le musiche di Annecchino, variegate ed evocative, dal jazz alla techno, hanno saputo restituire questa atmosfera dolente, profilata nelle tinte unite e uniformi dei personaggi, in un gioco combinato di ritmi e suoni che, entro una trama di echi e risonanze di tipo declinante, appunto decadente, ha reso un cielo di rimandi epocali e una terra di forte aderenza al nostro momento.

Tutto questo richiedeva interpretazioni vibranti, capaci di stare tra il mettere e il levare, assecondando le incalzanti variazioni musicali e l’indistinto spirito del tempo. L’operazione è riuscita grazie soprattutto all’eccezionale prestazione di Valentina Banci, straordinaria e impeccabile nel ruolo di una Medea che ha lasciato ad Euripide e Seneca la patente di furiosa invasata per intestarsi il ruolo di donna consapevole del suo stato di moglie tradita e determinata a compiere una vendetta che appaia un atto di rivolta e di giustizia naturale, una donna né strega né reietta ma comune in una normalità nella quale è facile riconoscersi anche quanto alla sua rabbia e alla veemenza delle sue ragioni.

Regge la sua immedesimazione una scenografia che sembra ispirata dai costumi, non foss’altro perché è anch’essa di Toffolutti, fatta per sottolineare il senso di horror vacui che la tragedia trasmette col proporre una landa desolata dove la sabbia sostituisce il sale simbolo del mare prosciugato e metafora di ultima spiaggia sulla quale si compie il destino di Medea, rappresentato anche dalla caducità delle cose – i rami rinsecchiti, la dimora rovesciata – e dalla precarietà degli elementi – le valigie pronte, gli abiti sdruciti dei coreuti e quelli disfatti delle coreute.

Aleggia un misto di provvisorietà e esizialità nel prosieguo della tragedia che si indirizza verso un epilogo funesto con un passo di ineluttabilità e rovina al quale tutti gli interpreti, dal messaggero (Diego Florio) al coro, riescono a dare contenuto palpabile e concreto. Dal canto loro Filippo Dini e Daniele Griggio, nei ruoli complementari di Giasone e Creonte, sembrano protendersi a vicenda le cime incarnando due personaggi che ubbidiscono a caratteri diversi (più indulgente Giasone, più irriducibile Creonte) ma svolgono un solo compito antagonistico.

La scelta di Magelli di eludere il contesto classico, disegnando un ambiente stile anni Venti fine a se stesso, minacciava di dare troppo spazio all’innovazione e di tradire la tradizione. Questo rischio è stato magistralmente scongiurato grazie a una convinta adesione al testo senecano, fatte salve alcune deroghe consistite in inserti tratti da Müller ed Euripide. L’effetto è di ascoltare una voce che viene da lontano e di vedere scene del nostro passato prossimo, in una congiunzione diacronica che lega il mondo di Nerone, colto sull’orlo del suo baratro, a quello primonovecentesco, anch’esso rappreso in uno stato di crisi senza scampo.

E’ questa sofisticata endiadi che premia il lavoro di Magelli, al quale sarebbe stato più facile e comodo riportare la vicenda al nostro oggi, ma ne avrebbe fatto un mero e scontato rammodernamento col difetto del dejà vu. Invece ha voluto condurre Seneca nel tempo e nella società che di più lo hanno amato, quella Mitteleuropa che non poteva non vedersi in uno specchio e non trovare una forma di deprecatio vitae nella irredimibile storia di Medea alla quale a metà degli anni Novanta Christa Wolf , tedesca of cours, sarebbe giunta per restituirle la piena dignità di donna. Più che abilità, la scelta di Magelli è coscienza e si inscrive in un’istanza socio-politica di giustizia e redenzione di cui si sentiva la mancanza e oggi si avverte il peso. Ancor di più piace il treatment del regista pratese se si apprezza l’assenza deliberata di rimandi a casi attuali. Il maggior pregio della sua Medea spoglia di concessioni è di aver fermato gli echi a una stagione anch’essa trascorsa resistendo alla facile tentazione di portarli fino al nostro tempo e fare di Medea la facile terrorista che dal Terzo mondo giunge nel civile Occidente per uccidere il re e la figlia in nome di un furore protetto da divinità straniere ed estranee. Ancorché proprio questa potrebbe essere una plausibile chiave di lettura nell’ottica della nostra concezione.

 


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